Frances Ha e l’insostenibile leggerezza dei ventisette
Frances Ha (2012, uscito in Italia a settembre 2014) di Noah Baumbach.
I 27 anni sono un’età molto interessante da raccontare. A 27 anni non sei ancora trentenne, ma neanche più ventenne, il gioco adolescenziale va per finire ma ci resti in qualche misura aggrappato: sei giovane ma stai veramente crescendo, come dire.
Sono gli anni del definitivo, irreversibile [sic] passaggio verso l’età adulta (li ho appena compiuti, un po’ di comprensione per questi aggettivi grazie), in cui tendenzialmente si concludono gli studi e ci si avvicina alla dimensione del ‘chi sei e cosa fai nella vita’: si va per affinare i propri contorni, che diventano via via più netti; sì, insomma, è il momento in cui il processo di individuazione si fa sentire. C’è una scena del film che parla chiaro in questo senso: licenziata dal lavoro che veramente le piace – la ballerina -, Frances si ritrova a fare un lavoretto per pochi spicci con una ventenne che la guarda stranita, ma tu non studi qui? No ma ehi, ho solo 27 anni! Dice, come a rivendicare un pieno diritto a rientrare ancora nella categoria dei giovani, che la ragazza sembra aver osato mettere in dubbio.
Infrequentabile (‘undateable’) – Difficile non provare simpatia per Frances, questa ragazza dalle gambe lunghe, il sorriso sempre pronto ad accendersi e il passo maschile che corre tra piroettes e balletti estemporanei nel quotidiano viavai di New York, che il coinquilino, per via delle sue stranezze (‘imparare il francese per leggere Proust in lingua originale?!‘), definisce spassosamente infrequentabile. Il film restituisce il ritratto di un personaggio effervescente, raccontato senza eroismi, psicologismi o drammatismi, in modo leggero ma non per questo banale, in un bianco e nero che dà una certa aria eterea alla storia. Il merito è anche di una bravissima Greta Gerwig, insieme attrice protagonista e coautrice del film.
Come gli altri protagonisti dei film di Baumbach, Frances è un po’ disadattata, spesso impacciata, sempre in eccesso rispetto alla realtà. Le figuracce sono all’ordine del giorno, proprio come nel caso de Lo stravagante mondo di Greenberg (2010), esprimendo ironicamente le difficoltà della comunicazione tra umani che fanno fatica a capirsi. Frances non riesce a rispettare l’etichetta, a sostenere la conversazione ordinaria tra persone rispettabili, di qui lo spauracchio dell’equivoco: questo continuo gap tra quel che sto dicendo e la tua reazione. In questo, evoca un po’ le scene di un principe Myskin incompreso e deriso nelle sue conversazioni a tavola ne L’Idiota di Dostoevskij.
Relazioni sfuggenti – Tratto tipico di Frances è questo eccedere le sue situazioni relazionali, che spesso si traduce in un investire troppo sulle persone, le quali di contro non perdono la propria evanescenza affettiva, rispondendo semmai pallidamente agli entusiasmi sempre troppo entusiasti di Frances.
Si pensi a questo affetto smisurato per la migliore amica, questo forte investimento emotivo su di lei che si scontra con la sua libertà di andarsene da un giorno all’altro a vivere altrove, per poi fidanzarsi con un uomo che Frances avvertirà inevitabilmente come rivale. Le persone cambiano, specie verso i trenta si accingono a indossare i panni di un’identità progressivamente definita, quando non è più possibile fare pappa e ciccia con la tua migliore amica. Frances assiste quasi impotente a questo vai e vieni di amicizie, finendo per addentrarsi in un senso di solitudine che fa presto a camuffare – va a Parigi per due giorni, completamente sola, lontano dal senso di sospensione in cui si ritrova tra amici perduti e lavoro assente.
I ventisette sono anche questo: farsi il callo, diventare grandi perché l’universo della perdita comincia un po’, ma solo un po’, a essere familiare. Si tasta con mano dunque, in questo continuo venir meno degli altri al proprio progetto emotivo, che siamo tutti fottutamente soli e si prosegue cercando di mettere le pezze a questo inaggirabile fatto. Quel che sembra sempre più chiaro è che la relazione totalizzante che Frances cerca è semplicemente impossibile: gli altri, come inafferrabili satelliti in un moto centrifugo, sfuggono continuamente, ognuno fedele alla propria storia indipendente.
Nessun dramma intimistico e/o esistenziale – Ma contrariamente alle aspettative, la protagonista non si dà in pianti o elucubrazioni autolesionistiche. Non si tratta di una disadattata a pieno titolo: Frances è in fondo ben capace di integrarsi nella società, muovendovisi con esuberanza ma, dopotutto, sempre entro i ranghi dell’accettabilità e con una certa gioia di vivere. Nessuno spostato sociale, nessun soggetto ai margini troveremo nei film di Baumbach, che predilige – in questo molto alla Woody Allen, il cui fantasma non a caso sembra molto presente nel film – soggetti di estrazione borghese, bianchi, bene istruiti, con appartamenti in quartieri carini, e una vita dopotutto comfortable, attraverso i quali mostrare tutta la sorprendente stranezza della dinamica io/mondo vista in questo caso dagli occhi di una ragazza che cresce.
Tutto questo materiale narrativo avrebbe potuto facilmente evolversi secondo un registro tragico-esistenziale, introspettivo-intimistico o strappalacrime, ma si mantiene sempre a un livello di commedia, sempre sopra la soglia della leggerezza, senza per questo scadere in una narrazione trita, là dove Frances si rimette spontaneamente in piedi dopo ogni piccola grande batosta – pronta ad accogliere l’amica dopo un litigio alla prima occasione, pronta a reinventarsi dopo il licenziamento.
Dover accettare di non fare più la ballerina, il sogno di una vita – anche questo è compreso nel pacchetto dei ventisette: la risposta alla domanda, finirò davvero per fare quello che ho sempre voluto? – non si traduce in uno stato depressivo. Nessun indugio sulle pieghe interiori di Frances, ma non per questo ci è dato un ritratto superficiale: abbiamo piuttosto assaggi limitati ma al contempo esaustivi della sua personalità.
Nessun dramma esistenziale, dunque: forse, proprio in questo risiede il tratto peculiare di Baumbach, che esplora i suoi personaggi indugiando nelle loro bizzarre imperfezioni e nelle consuete difficoltà relazionali senza però cedere alla tentazione di drammatizzare.