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Le anime nere di Francesco Munzi

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Dei film in e/o sulla Calabria, abbiamo sempre una certa paura quasi: solo noi possiamo parlar bene e male della nostra terra e, ancor di più, abbiamo un timore insano nel pronunciare la parola ‘ndrangheta, come se non nominarla la renda in qualche modo un problema lontano. Non siamo noi, sono loro. Ma non è così lontano come problema: non scegliamo noi le famiglie in cui nascere e Anime Nere di Francesco Munzi è questo: il ritratto di una famiglia di Africo, nel cuore dell’Aspromonte, la cui storia è quella di un’intera comunità imprigionata in una ragnatela tessuta con strette di mano, abbracci e silenzi; una Orestea moderna forse a ben guardare.

Tre fratelli, Rocco (Peppino Mazzotta) e Luigi (Marco Leonardi) ben addentrati in un perfetto ciclo e riciclo dei proventi derivati dal traffico internazionale di droga e lontani da Africo dove vive però Luciano (Fabrizio Ferracane), il maggiore dei tre, la personalità apparentemente più semplice ma, in realtà, la più complessa nella rielaborazione dei sentimenti: Luciano è cinereo come il cielo che sovrasta le scene girate all’esterno, è guardingo verso il suo stesso sangue che tiene lontano ma che lo scava nella coscienza. A complicare le cose e a riunire i fratelli sarà Leo (Giuseppe Fumo), il figlio ventenne di Luciano: il ragazzo non sopporta l’atteggiamento remissivo del padre che preferisce la vita agreste agli agi, ammira gli zii e la loro vita benestante, ignaro della complessità delle dinamiche che circondano le relazioni fra famiglie rivali, rompe un equilibrio con la sua irruenza, la sua presunzione di conoscere la vita.

Anime Nere ci ha finalmente disarmato: non possiamo stare in attacco o sulla difensiva perché le  Anime Nere fanno parte di noi, innegabilmente reali nella nostra cultura solo apparentemente rinnegata e dimenticata. Abbiamo madonne a redimerci, a ripulirci l’anima, come fa, fra speranza e disperazione, Luciano, che beve un calice amaro portando via la polvere ai santi pur di trovar conforto e forza per vincere i suoi dèmoni. In Anime Nere non ci sono vincitori o vinti: ci sono semplicemente diverse attitudini, pensiamo ad Antonia (Anna Ferruzzo), moglie di Luciano e madre di Leo, che con la sua accondiscendenza e il suo servilismo all’ambiente e alle circostanze consegna il figlio alla malavita prima, alla morte dopo. Antonia è forse l’emblema di quel cambiamento culturale che fatica a trovare voce, a prendere una posizione netta: lo farà soltanto nell’ultima scena lasciando sempre e comunque delle perplessità; differente è l’atteggiamento di Valeria (Barbora Bobulova), moglie di Rocco, che vive con sofferenza il rapporto con il contesto familiare e culturale dei luoghi d’origine del marito.

Munzi, e già Criaco prima con il libro, mostra, senza pietismo alcuno, una Verità; dimostra come le colpe dei padri sì ricadano sui figli ma come, nel bene o nel male, una possibilità di cambiamento possa esserci. La lentezza della narrazione potrebbe essere avvertita come un difetto che, però, solo nella scena finale rivela la sua funzione di preparazione emotiva a quella che potrebbe essere definita una nemesi della speranza.

Un plauso e un grazie a Munzi va non solo per il coraggio con cui si è confrontato con la storia narrata, ma anche per la scelta del cast sempre impeccabile e assolutamente all’altezza di quella nomination agli Oscar in cui abbiamo sperato non per sterile campanilismo ma per il reale valore dell’opera.